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La parabola dell’atleta paralimpica «Il mio salto oltre gli ostacoli»

data di pubblicazione: 24-10-2016



nella foto Arjola Dedaj alla battuta con la divisa dei Thunder's 5 Milano

Arjola Dedaj: dall’Albania all’Istituto dei ciechi fino al Bertarelli. «Torno al mio liceo per insegnare a non mollare»

di Elisabetta Andreis

 
 
 

Il 16 settembre, alle Paralimpiadi di Rio de Janeiro in Brasile, una bellissima atleta batte il record italiano del salto in lungo, con una mascherina a coprirle gli occhi. È la stessa che si era piazzata nei 100 e 200 metri ai Mondiali di Doha in Qatar e aveva collezionato medaglie in varie discipline dell’atletica leggera agli Europei di Swansea in Inghilterra (due argenti e un bronzo). Una campionessa: salta e corre, sempre con la benda e una «guida» che la affianca. Danza, anche. E gioca a baseball (sei scudetti). Arjola Dedaj, classe ‘81, ha perso gradualmente la vista ma non smette di guadagnare grinta. Non indugia sull’inizio della sua storia, simile a molte. Infanzia povera in Albania, fuga dalla guerra e dalle violenze. Nel 1998, a 17 anni, arriva in Italia: «Ero con il mio fratellino, sul gommone, di notte. Terrorizzata, perché non sapevo neanche nuotare. Per farmi forza alzavo la testa e guardavo le stelle, ma non bastava». All’epoca distingueva i colori e da vicino riconosceva le persone: «A Tirana i disabili vivono una discriminazione senza vie di uscita - racconta -. Non avevo mai pensato si potesse vivere». Lei ha cambiato pagina. I due approdano vicino a Lecce, passano sei ore a camminare in mezzo ai boschi, all’alba vengono caricati su un furgone che li porta fino a Bari in Puglia. E da lì un altro viaggio, lei e il fratellino, per raggiungere la mamma a Milano.

Le opportunità, Arjola, le ha scoperte in via Vivaio. «Mi hanno accolto all’Istituto dei ciechi, subito iscritto ad un corso di informatica e fatto venire voglia di studiare, con l’obiettivo di un patentino europeo - dice -. Se trovi qualcuno che ti incoraggia senza avere preconcetti o barriere mentali, e non ti considera soltanto un povero disabile, prendi forza e parti di sicuro», è la sua idea. In quel periodo inizia a giocare a baseball e ballare il valzer... e a correre e saltare, in modo amatoriale. Intanto lavora come guida nei percorsi di Dialogo nel buio, la mostra-esperienza di grande successo che racconta la vita dei non vedenti. Negli anni la retinite pigmentosa le spegne completamente gli occhi, ma in qualche modo lei si era preparata: «Diventavo cieca, pian piano imparavo ad accettarmi, a usare il bastone. Ma anche a godermi la vita tirando fuori tutta l’energia che avevo in corpo e nella testa». Nel 2011, a 30 anni, decide di iscriversi alla scuola che non aveva mai potuto fare. Corsi serali all’Istituto professionale Bertarelli: classe mista, tanti giovani, lei era una delle più grandi.

 

 

 

Nel 2012 comincia ad allenarsi seriamente in pista: in pausa pranzo o la mattina presto, prima del lavoro. Nel 2014 ottiene la cittadinanza che le serve per gareggiare con gli azzurri e si innamora di Emanuele Di Marino, altro sprinter paralimpico nazionale. L’anno scorso il diploma, coi complimenti dei professori. Tra qualche giorno, mercoledì, torna per la prima volta al suo liceo, il Bertarelli, per parlare a centinaia di studenti, in aula magna. «Non si può spiegare l’orgoglio di questo istituto», si emoziona la preside, Amalia Catalano. Cosa dirai a quei ragazzi? «Di non mollare mai. Se domani non superi un ostacolo, lo farai dopodomani. Ma devi farcela». Un tuo sogno, Arjola? «Sui mezzi di trasporto, tram e metrò, mi muovo bene. Avrei bisogno invece, finalmente, che mettessero i semafori sonori. A chi vede, magari sembra una sciocchezza. Vi assicuro che non lo è».
Elisabetta Andreis



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